Alcol e quarantena. Come cambia il nostro rapporto con questa sostanza ai tempi del coronavirus

di Giulia Solignani*

Durante questi giorni di ritiro forzato mi sono ritrovata a sfogliare la gallery di Instagram come se fosse un gesto inconsapevole; mi sono imbattuta in tante stories e post che immortalavano scene di aperitivi tra amici in videoconferenza. Mi è capitato poi di soffermarmi su un articolo pubblicato sul sito di Vanity Fair Italia in cui emerge un incremento del 250% delle vendite di alcolici online con consegna rigorosamente a domicilio. Sono tante le app che offrono questo servizio e proprio ieri mi sono ritrovata la pubblicità di una di queste nella casella dello spam. Tale fenomeno riguarda – per ora – principalmente il Nord Italia, in particolare Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, ovvero le regioni più duramente colpite dal coronavirus.

Certo, affrontare la quarantena soli in casa non dev’essere per niente semplice e probabilmente l’idea di incontrarsi in uno spazio immateriale, come una video-chiamata di gruppo, per bere insieme agli amici di sempre, può aiutare ad alleviare il senso di solitudine.
Come rendersi conto se questo momento di apparente normalità – come un aperitivo – inizia a diventare un’abitudine invadente?
Facciamo un passo indietro.

In letteratura gli studi che utilizzano un approccio socio-culturale hanno individuato due modelli del bere: uno cosiddetto “bagnato” o mediterraneo e uno “asciutto” o anglosassone. In Italia si consumano bevande alcoliche dai tempi degli antichi romani e ancora oggi il nostro è uno dei Paesi che produce una grande quantità (e varietà) di vino. Il vino è considerato alla stregua di un alimento e in molte case accompagna il pranzo e la cena. Vi è una vera e propria cultura del bere che vede nel vino non una sostanza d’abuso ma un piacere innocuo da gustare con moderazione. Negli ultimi anni, tuttavia, abbiamo importato in modo acritico la modalità di consumo anglosassone. In questi paesi l’alcol viene confinato alla dimensione del pub e raramente lo si trova sulle tavole durante i pasti. L’alcol come lubrificante sociale aiuta a far cadere le inibizioni e ad apparire brillanti e spigliati nelle relazioni. Diviene dunque una sostanza che aiuta a migliorare le proprie performance sociali e in molti casi l’obiettivo del consumo può diventare lo stordimento, l’ebbrezza. Il cosiddetto binge drinking (abbuffata alcolica) negli ultimi anni si è rivelato essere lo stile di consumo più in voga tra i giovanissimi (e non solo). Posso pensare di avere un problema con l’alcol se bevo solo il sabato sera (ma fino a sfiorare il coma etilico)? Devo preoccuparmi se passo la mia quarantena a bere connesso con gli amici?

Non esiste una risposta univoca e valida per tutti. Cercheremo di approfondire la questione per offrirvi qualche spunto di riflessione.
Partiamo da una domanda all’apparenza banale: l’alcol è una droga? Molti di noi d’istinto saranno tentati di rispondere con un secco “no!”, in realtà l’alcol (anche se assunto in modiche quantità) altera il nostro stato psico-fisico, deprime il funzionamento del sistema nervoso centrale portandoci a uno stato di rilassamento. Per questo motivo l’alcol è da considerarsi una droga a tutti gli effetti. Certo, è una droga legale (per i maggiorenni) e socialmente accettata, ma è pur sempre una sostanza stupefacente.

Quali rischi può comportare dunque affezionarsi a questa sostanza durante l’isolamento sociale imposto dalla quarantena? Tralasciando la fake news secondo cui bere alcol ci avrebbe protetti dal contrarre il coronavirus (bufala che nel frattempo in Iran ha provocato più di 40 di morti), ciò da cui realmente ci tutela forse è il senso di angoscia e di panico che potrebbe assalirci se pensassimo a ciò che sta accadendo a mente lucida. L’alcol può diventare dunque una sorta di auto-cura che tiene sedata la nostra ansia ma può anche impedirci di affrontare la situazione con la dovuta lucidità. Se sono alterata, sono davvero io? Quali risorse posso far emergere in uno stato di stordimento? Per rispondere a queste domande dovremmo provare per un attimo a uscire dal luogo comune del “bere per dimenticare”; l’alcol non ci provocherà di certo una amnesia retrograda che ci farà pensare che tutto vada bene, al contrario tenderà ad amplificare le emozioni provate al momento del consumo. Il rischio è dunque quello di prendersi una “sbronza triste”, di cedere a comportamenti aggressivi o di chiudersi in se stessi con le proprie paranoie. È bene dunque ricordare a noi stessi che tutte le sensazioni che questo periodo carico di incertezze per il futuro ci suscita fanno parte dell’essere umano. La paura, per esempio, è un elemento che ci tutela; è importante riuscire a nominare queste emozioni e allenarci a riconoscerle e a individuarne l’origine. Come spesso accade, conoscere se stessi può essere un importante fattore di protezione.

In alcuni casi questo non è sufficiente. Occorre dunque chiedere aiuto se ci si ritrova ad aprire la prima birra subito dopo la colazione, o se la quarantena diventa un interminabile aperitivo in videoconferenza. I Ser.DP (servizi per le dipendenze patologiche) continuano a essere attivi e sono disponibili anche per una prima accoglienza a distanza.

*Giulia Solignani è un’educatrice della cooperativa sociale La Carovana dal 2011. Si è specializzata nel settore della prevenzione delle dipendenze patologiche e lavora sia in contesto scolastico sia all’interno di spazi d’ascolto territoriali.

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